Il lavoro come esperienza conoscitiva del mondo

mercoledì 3 ottobre 2018

A metà tra la ricerca sociologica sul campo e la narrativa geografica, l'esperienza di studio che sto conducendo mira a descrivere e approfondire l'impatto di specifiche condizioni di variabilità sulla mia personale cosmologia.

Con condizione di variabilità intendo una specifica situazione o tendenza entro la quale un soggetto agisce e modella la propria realtà in funzione della realizzazione delle proprie aspettative. Questo concerne i processi decisionali, relazionali e mentali. Si pensi all'idea di stabilità: un soggetto può programmare obiettivi, personali e lavorativi, in funzione del raggiungimento di una condizione di stabilità adatta e definibile dal soggetto stesso. A livello descrittivo occorre però precisare, al fine di chiarire il significato dell'oggetto d'indagine, che il termine stabilità rappresenta solamente una tra le condizioni di variabilità. Esse sono molteplici, diversamente preferibili e soggettivamente consapevolizzabili.

Stabilità e instabilità sono allo stesso modo condizioni di variabilità. Su questa tesi la ricerca avanza e pone delle domande fondamentali: è possibile preferire un orizzonte di instabilità e provvisorietà nella propria vita? In che modo la realtà muta o, meglio, in che modo il soggetto muta nei confronti della realtà? Quali risorse vengono attivate? Ed ecco che per rispondere a queste domande si entra nella parte pratica della ricerca: è necessario creare e preferire specifiche condizioni di variabilità, nel mio caso provvisorietà e instabilità. Questo processo interiore, di mutamento spirituale e culturale, richiede il massimo sforzo nella consapevolizzazione, al fine di diventare rintracciabile e descrivibile.

Ecco allora che strumenti quali il viaggio, il lavoro, lo studio di una lingua, l'esposizione a una differente cultura smettono di essere l'obiettivo dell'esperienza e diventano strumenti al suo servizio, pronti ad essere cambiati. Tale processo di cambiamento propelle se stesso e, quale risultato implicito, inevitabilmente costringe il soggetto a richiamare risorse personali ed esterne nuove o poco considerate in precedenza.

Fermo a San Giorgio

venerdì 25 maggio 2018

È il sole dell'ombra lunga
ai fiori che si chiudono;
l'aria sa dell'origano
così che ogni erba
quassù,
dita di un'infinita mano,
s'accarezza, e diventa voce
nell'unica imperitura ragione
di tramandare dell'origano
il profumo.

L'interessante fenomeno della valle che cade in ombra,
acne di costruzioni geminata tra nervature pulsanti,
innargenta il lago del riverbero delle nuvole;
la valle affida alla bruma il salire d'ognuna delle sue sponde
a costellarsi d'elettrico e diffuso, immobile specchio nero.

Come si può dire il mettersi seduti
in pace
mentre una chiocciola procede?
Non v'è nessuna lentezza, nessuna
saggezza;
preferisco commuovermi,
esplodere il cuore,
e smetterla immediatamente
di descrivere la sua
sconfinata bellezza.

Dove sono

sabato 12 maggio 2018

Avevo deciso di passare le pause pranzo cercando posti isolati dove montare l'amaca e godermela, all'ombra di qualche albero, magari con un po' di venticello. Nella giornata di ieri, dopo aver comprato una vaschetta di insalata di riso e qualche banana, ho girato per una ventina di minuti prima di trovare il posto adatto. Si trattava di un boschetto di alberi piantati in due file ordinate, che da una parte dava su un campo aperto direttamente esposto alla strada, dall'altra invece racchiudeva il giardino di una casa. Non avevo intenzione di pormi il problema della proprietà, quindi ho montato la tenda piuttosto lontano dal giardino. Dopo aver mangiato il riso a cucchiate seduto sull'amaca mi sono sdraiato e il sonno è venuto da sé. Il vento era aumentato e il dondolio si faceva dolce, i bordi molli del telo mi accarezzavano il viso, presso la casa un cane bianco riposava accovacciato.
Potevo girarmi su un fianco e sentire la testa sorretta dalla naturale inclinazione del sacco in cui ero avvolto; le pulsazioni rallentavano e sono arrivato a sentire freddo, cosa che mi ha fatto rannicchiare ancora di più. Due gatti camminavano insieme, fermati solo a osservarmi nel momento in cui ho aperto gli occhi per guardarli. Mi sono alzato mentre una bambina usciva in giardino a giocare.
Oggi invece, dopo un giro di circa mezz'ora in lungo e in largo per Santa Maria di Sala a scandagliare boschetti liberi, ne ho trovato uno che si è rivelato essere terreno coltivato a orto. Mi sono spostato di qualche decina di metri ma la parte selvatica era un'ombra umida ricca di zanzare affamate. Ho optato per la più familiare Villa Farsetti. Frequentata certo, ma meno selvatica.
Ho montato l'amaca tra due alberi delle file del boschetto del parco. Alcune persone stavano smontando un set fotografico e tutta l'area del prato era in stato di allestimento per la festa di questi giorni. Mi sono lasciato cullare dalla vista delle foglie sopra di me, uno stagno di macchie aeree rotto dai raggi del sole, lunghe serpeggianti ramificazioni a più livelli e sfumature. E in uno stato di semicoscienza ha iniziato a farsi sentire la fame. Una banana, solo una banana e il mio pasto era concluso, la fame saziata. Mi sembrava di poter stare solo lì e da nessun'altra parte. E ultimamente è la stessa sensazione che ho leggendo Jack London. Leggendolo sembra che non avesse in mente nessuna preoccupazione ulteriore nel suo modo di "andare sulla strada". Uso le virgolette perché è come la dice lui, l'unico modo di intendere la sua scelta: non stava affrontando, non stava lottando (anche se ogni giorno rappresentava un impegno per la sopravvivenza), non aveva sfidato la sorte lanciandosi in una vita contro il sistema. Era tutto a causa della vita che era in lui.
Tornando verso l'hotel, lungo la strada dritta dritta che segue le antiche squadrature romane, ho rallentato perché ho visto brillare qualcosa a bordo strada, da lontano. Sono esploso di gioia nella bellezza della scena che avevo davanti: una mamma anatra con una decina di anattroccoli aveva risalito la riva del fosso e attraversava la strada. Ho guardato negli specchietti pronto a mettermi di traverso nel caso in cui qualcuno, vedendomi rallentare, avesse deciso di superarmi a sinistra. Non era venuto nessuno e la comitiva spariva nell'altro canale.
Si è trattato di un evento normale, ma mi sono accorto di covare un pernsiero enorme dentro, capace di parlarmi di sorpresa, di gioia. Non avrei potuto essere da nessun'altra parte.

Lo stile di Pippo

giovedì 15 marzo 2018

Pippo sembra essere la trasfigurazione della mindfulness. Perché non è "tonto", ma nemmeno completamente definibile. Eppure le sue storie sono tutte accomunate dall'ineffabile coerenza del suo modo di affrontare la vita. Taluni potrebbero confondere questo modo con la sbadatezza, ma anche qui non sarebbe corretto.
Intendiamo con "mindfulness" uno stato di consapevolezza particolarmente legato all'esperienza del personaggio nelle vicende che vive, senza ulteriori riferimenti alla teoria psicologica. Anche perché è per primo lo stesso Pippo a non avere una teoria ma a muoversi secondo il sacro principio del sentire, veramente poco condizionato dai giudizi esterni/interni e dai pensieri che questi gli potrebbero suscitare.
Prendiamo la storia "Topolino e il ritorno del Principe delle Nebbie": quando nel pieno dello scontro Topolino ricorda a Pippo che le forze oscure contro cui stanno combattendo non sono altro che illusioni, ecco che lui sembra cogliere quella rivelazione trasformandola in una logica deduzione scientifica, ossia, nel modo in cui tutti noi vorremmo poter trattare le nostre paure e preoccupazioni di ogni giorno, trovando la soluzione e la forza per sconfiggere i nemici.
C'è in Pippo un'assoluta ed equilibrata centratura, che lo porta ad essere tanto gentile e disponibile quanto onesto e leale verso se stesso. Caratteristica che risalta ancora di più in una saga, quella della terra di Argaar, che vede in realtà sempre Topolino come riferimento nei titoli dei vari capitoli.
Dopo una lettura così, non si può far altro che notare che il vero potere, invece, in questa storia, come in tutte quelle del ciclo, è detenuto da Pippo, non da Topolino. Quest'ultimo invece, già famoso per rappresentare la figura del plurieroe intelligente e osservatore, finisce per accompagnare e dirigere il compagno. Potrebbe allora sembrare un riscatto, una vittoria silenziosa e disinteressata, da parte dell'uno verso l'altro, ma in questo modo scadremmo in un dualismo critico di bassa lega, orientato dal giudizio.
Pippo e Topolino sono amici, e va bene così. Nel pieno stile di Pippo.

Merli

martedì 13 marzo 2018

Chiusa la portiera mi sono girato verso la pianura, un mosaico che risplendeva al sole di marzo, tutto intarsiato di caselle marroni, verdi, grigie, luccicanti, scomposte, il mosaico che Giulio vede ogni giorno dalle ampie finestre di casa sua.
Il campanello si trova oltre il basso recinto di legno, metto i piedi nel giardino.
Tump!
Un sonoro tonfo mi fa guardare ai finestroni del primo piano che mi sovrastano, il corpicino stordito di un merlo scompare tra le fioriere e una nube di leggere, piccole piume nere plana sopra le corone delle calendule.
Tutto tace di nuovo. Rimasto a guardare il vetro, scorgo qualcosa muoversi come sotto la superficie di acque calme.
«Sì è schiantato un merlo sul vetro!» dico al padre di Giulio, affacciato a cercare tra le fioriere.
«Eh ma si riprendono di solito. Dov'è?»
«Lì nella fioriera, a sinistra. Ma perché, succede spesso?»
«Sbattono contro il vetro ma poi di solito si riprendono.»
«Ma perché? Vedono il riflesso?»
«Loro ci vedono il cielo azzurro e sbattono. Dov'è che è?».
«Lì nella fioriera. No quella a sinistra, dietro il fiore.»
«Beh si riprenderà. Quali nuove?»
«Devo riportare le schede SD di Giulio. Ma il campanello è quello?»
«Sì è quello lì, ma chi viene a casa mia apre e viene su.»
Sgancio il chiavistello e apro. Faccio gli scalini a due a due e mi fermo quando un cane, un trotterellante esemplare di cavalier king, mi corre incontro.
«Questa è la Gina, e come vedi è ferocissima» mi dice il padre di Giulio. «Da quando abbiamo il cancelletto per lei non suona più nessuno, c'è una tranquillità!». Gina mi fiuta la mano cercando di arrampicarsi sui jeans, vitale come la reincarnazione di una giornata di primavera.
«Mi ha detto Giulio che avete avviato un bel lavoro.»
«Sì» rispondo senza troppa voglia di spiegare, ma lo so, dopo lo sforzo mentale di tornare alla sera precedente posso anche approfondire. «C'erano una dozzina di ragazzi, tutti molto interessati.»
«Quando è stata l'ultima volta che si è sentita una cosa così? Ne facevo parte anch'io, forse vent'anni fa.»
«L'assessore mi parlava dell'inizio degli anni novanta.»
«Saranno anche venticinque anni... Gli ho detto Giulio, mi hai fatto fare un salto a quand'ero giovane!»
«Ah aspetta che chiudo» dico fiondandomi all'inseguimento della Gina, che ballonzolava giù per i gradini bianchi.
«Sente la cagnolina di Pietro, che abita lì. Lo sai dove abita Pietro no?» mi chiede il padre di Giulio raggiungendomi al cancelletto.
«No, dove?»
«Lì sopra.» indica qualche casa più su mentre la Gina gratta il legno che la separa dalla strada.
«Una volta partecipavano in tanti...»
«Una volta forse era anche più sentito l'impegno politico.»
«Sì. Forse sì.»
«Anche se ieri erano tutti molto attenti e sembravano... in attesa. Come in procinto di sfogare una lunga attesa.»
«Mi ha detto che avrebbe fatto qualche foto, ne ha fatte trecentocinquanta.»
«Sì è stato bravo, gliel'ho chiesto io di fare un'ampia copertura.» la Gina ci guarda seduta mentre passo le schede SD dalla mia mano a quella del padre di Giulio.
«Va bene, grazie mille!» appoggio una mano al cancellino e lo salto via e odo una risata dietro di me.
«Sì anch'io faccio così, è più facile!».

Orme

domenica 4 marzo 2018

Trovare la neve a San Rocchetto, per me, voleva dire riscoprire i sentieri delle colline quinzanesi. Dai paesi del fondo valle salgono strade carrabili che diramano tra gli uliveti alle spalle dell'eremo, assottigliandosi tra i campi in viottoli sempre più stretti e convogliando in ulteriori stradelle carrabili d'altura. Il depositato alto quattro dita aveva reso queste vie dei radi corridoi dai margini indistinti; il bianco deformava tutti i punti di riferimento.
Salivo all'eremo in un ticchettio di granelli ghiacciati mentre il camion spargisale otturava la stretta via, sfilando a un soffio dalla manica della mia giacca. L'aria bianca e densa chiudeva la vista non più in là di mezzo chilometro, confondendo tutto in una coltre nebulosa densa e statica, che mangiava a poco a poco i rettangoli bianchi del centro abitato. Il paese si abbassava passo dopo passo, le piste lasciate da chi mi ha preceduto diminuivano al procedere dei civici lungo la stradina.
Attraversavo gli uliveti con il solo scopo di aggiungere metri al mio andare, come se inconsciamente sapessi di averne bisogno, di utilizzare quel tempo e quel luogo per prendermi cura di me. La direzione non m'importava ma volevo poter ritrovare la casetta, un podere piccolo e grazioso come quelli delle campagne sperdute di Scozia e Irlanda, creato da un signore che avevo conosciuto e che mi aveva offerto una vista dalla sua torretta.
Presi a sinistra per l'imbocco calpestato del più piccolo sentiero che si può trovare in questa zona, scavato dalle suole tra sassi instabili, infilato come una piega tra due pance della collina. I veri abitanti di qui, gli ulivi, assistevano pensierosi al mio mesto passaggio, con i rami carichi di neve in perenne tensione. Al bivio per la Piana di Ronchi il verde chiaro di un bambù esprimeva il proprio dissenso, contrario agli scuri marroni dei covoni di sottili rami tagliati, alla pellicola antica di un luogo che aveva dimenticato i colori. Oltre il boschetto le voci di un uomo e di un bambino erano gli unici suoni d'inquietudine nel rosicchiante piovigginare di cristalli.
La poca familiarità nel riconoscere dove mi trovavo mi spinse a continuare, guidato unicamente da una fila di orme umane, più chiare delle altre, che mi accompagnavano dall'inizio del sentiero. Si trattava di una suola con una forma nel tallone, lunga e profonda. Provenivano dalla direzione nella quale stavo andando. All'improvviso non mi sentivo più solo, un Camminatore era con me. I cancelli delle abitazioni silenziose, gli umili muretti a secco mezzo nascosti da schiumate nevose. Mi affidai totalmente ai suoi passi per cercare la svolta del ritorno al Santuario.
In un momento però, nei pressi di Piana, sullo stesso tratto di strada vidi sia le orme girate nella direzione da cui ero venuto sia quelle girate nella direzione in cui stavo andando. Doveva essere un tratto che il Camminatore aveva percorso prima in un senso e poi nell'altro, il che voleva dire che quasi sicuramente avevo mancato il punto in cui la pista svoltava nella direzione che stavo cercando. Rimettendomi a decifrare le impronte sull'ultimo tratto vidi dividersi le vie, i passi che tornavano piegavano verso una leggera salita, una strada chiusa al traffico motorizzato. Raggiunto il bivio successivo riconobbi il sentiero basso del colle, dal quale si aggira l'altura e si raggiunge il paese. Risalita invece la strada vicinale fino alla congiunzione con il sentiero per l'Eremo di San Rocchetto, percorsi quella direzione fino al campo incolto, il mio punto di riferimento in quota, per il quale tagliai lasciando il sentiero. La neve aveva ripreso a cadere fitta e spessa come grossi fiocchi di cotone. Dal manto sul terreno spuntava un esile filo d'erba che si faceva credere un uccellino sepolto. Senza volerlo eccola lì, la casa che cercavo, il posto segreto che ho cucito dentro di me. Non mi ricordavo precisamente la sua ubicazione e sapevo che ritrovando l'anello per l'eremo avrei trovato anche quel luogo con il suo giardino. Ero arrivato e mi bastava quello per poter ripartire.
Qualcun altro aveva percorso il mio stesso sentiero di collegamento, due persone, frusciando sotto le dita di lunghe foglie sottili e aggirando i muretti divisori. I passi di costoro, e ben presto anche i miei, tornavano a scomparire un batuffolo alla volta, una carezza posata subito dopo l'altra, delicatamente ma con determinata intenzione, come se avessi svelato un segreto e adesso, per celarlo e riappropriarsene, la terra tornasse a coprirsi. Capivo di dovermene andare.
Sorpassata la casetta dismessa sulla cresta del colle, seppi di dover fare attenzione al tratto di sentiero in pietra esposta, scivolosa e inattendibile a causa del vello innevato. Ritrovato il cancello, ostinatamente aperto, dell'Eremo, ripresi la via della discesa. Un ramo lasciò cadere un grumo di neve come una mano inerte.
Ritrovai le piste dei residenti, gli usci, il sale sull'asfalto, ma non era come andarsene da un luogo per poi raggiungerne un altro, che so, uscire da un centro commerciale o da un qualche cosa di popolato, di costruito. Erano i corpi nudi degli alberi, la superficie della terra, quelli rimasti là sopra a imbiancarsi e, qualsiasi cosa potesse accadere, a rimanere in mutamento.
Lasciai il posto al silenzio.

Aquilus

domenica 4 febbraio 2018

Ritornavo al Corno come si torna all’altare, credendo che da lassù potessi osservare risposte altrimenti negate. È un’altra montagna d’inverno. Ho preso la strada che non avevo mai fatto, una vera e propria strada fino agli ultimi cento metri di dislivello, senza domandarmi se fosse quella giusta, superando i due imbocchi del sentiero E7 che avevo fatto la prima volta con mio padre e, come in quell’occasione, pur essendo da solo, seguivo qualcuno. Mi accompagnava l’entità della montagna, in passi corti e scivolosi, puntando con gli scarponi a far presa sui tratti di asfalto o terra, macchie ruvide e sicure, mangiucchiati nella neve.
Il vento era gelido e penetrava dalla cerniera rotta della giacca. Amavo guardare il corale tintinnio delle legioni di foglie, luminose di pomeriggio, assurdamente dedite ai loro bracci di rami asciutti invernali. Cedevano il passo, all’aumentare di quota, ai sempreverdi aghiformi, che nelle loro ombre nascondevano il ghiaccio ai nostri passi, rendendo ogni volontà di avanzamento un’attenta riflessione, un proposito non privo di rischio, come a ricordarci il valore che dobbiamo riconoscere nel salire, su questo monte come su ogni altra sponda di terra.
Verso la metà del tragitto, le rocce sbucavano dalla vegetazione come estrusioni rigonfie e provocavano una curva a destra e una a sinistra, dietro le quali comparivano i fusti spezzati dei pini, sul ripido declivio al di sotto del sentiero, sdraiati a fianco delle proprie radici. Di uno di loro, i rostri affilati di fibra di legno odoravano di resina ed essenza. Nell’aria limpida gli odori apparivano chiari come colori.
Avevo lasciato indietro gli ultimi camminatori incontrati sul percorso poco prima di uscire dall’area boschiva. I supporti di una sbarra scomparsa indicavano l’inizio della seconda parte di salita, quella che si snoda tra le bolle flessuose che preludono alla cima, sedi dei pascoli estivi. Si scorrono le circonferenze imbiancate, fino al versante in ombra, dove intervengono altri sporadici saluti. Da questa parte l’accumulo di neve era più massiccio e resistente, più facile da affrontare infossando i piedi in solchi resistenti. Il sole si frantumava negli infiniti cristalli luminosi di dura neve, ghiacciata nel succedersi dei giorni e delle notti. Ogni lingua, ogni coperta candida e sfaccettata, si ritraeva un po’, scoperchiando erbe ingiallite, muschi barbosi, rocce umide, dando il senso dell’infezione che si ritrae, restituendo la pelle della montagna dal guanto del gelo.
L’abitato sul Corno, nell'alternarsi stagionale, è composto da alcune stalle sparpagliate e qualche malga. La mulattiera che conduceva a una piccola chiesetta era recintata da due righe di filo spinato a ovest e da una sequenza di paletti a est, che sporgeva da terra di una trentina di centimetri, ognuno collocato a circa mezzo metro dall’altro. Oltre, i camminatori colorati di giacche popolavano i tavoli della malga, scambiandosi tra l’interno e l’esterno.
Mancava ora da superare l’avvallamento che, visto dai paesi di pianura, accentua la forma di corno della cima, la quale talvolta, nelle giornate cariche di smog o di foschie invernali, si sfuma in contorni imprecisi, restituendo tutto il significato del suo nome: Aquilio deriva dal latino aquilus, fosco. Un forte vento mi congelava le orecchie e si faceva tanto più forte quanto più mi esponevo salendo, costringendomi a usare il cappuccio.
Ricordavo le pietre incastonate nella terra granulosa del giorno in cui sono salito con i miei amici, parlando di noi e di Dio ma non delle nostre paure. Le stesse pietre di oggi, quindici anni prima ci facevano da sfondo, scorrevano senza entrare nei nostri pensieri. Sono quelle pietre che ho voluto raggiungere, sulle quali mi sono seduto per mangiare un pasto semplice; che per un pomeriggio ho considerato come la casa di un amico, dove introdurmi sapendo che non mi avrebbe mandato via.

Sàrdègna

lunedì 1 gennaio 2018

Ha ragione V. a dire che quando si va a questi tornei il tempo si dimentica, se ne perde la cognizione. In questo caso, cinque giorni sono volati, grazie al torneo ma grazie anche a chi li ha condivisi con me. E poi grazie anche alla Sardegna.
La sensazione che ho nell’andarmene è quella di essermi ustionato, come se fossi stato troppo vicino al fuoco. La Sardegna, verso di me, comporta un po’ questo rischio, selvatica e leggendaria com’è, quello di scegliere di non svelarsi del tutto, di difendersi se vuole, se giudica che non si sia pronti a conoscerla. Con molta umiltà ammetto di sentirmi così. L’ho voluta viaggiare, scoprire, ritrarre in tre giorni più di quanto essa non possa. I tempi di questa terra sono altri e non vanno pensati. La prima sera, se ora ricordo, ero stato messo in guardia, con tutta la bontà possibile, ma come spesso capita, non si è pronti a recepire i segnali.
Il maestrale soffiava già venerdì pomeriggio, sceso dall’aereo il clima era caldo ma l’aria fredda. Per arrivare da Elmas a Cagliari centro c’è un treno che parte dall’aeroporto e in cinque minuti si è in piazza. Il vecchio treno propagava boccate di gas alla fermata che rimanevano in cabina durante il viaggio fino a disperdersi dai finestrini o nei polmoni dei passeggeri. Era un vecchio treno a motore, si sentivano le marce ingranare.
Da Cagliari centro non è stato subito immediato trovare la linea per Quartu Sant’Elena, dove si trova l’Hotel; lo stesso personale dell’info-point di piazza Matteotti non ha saputo dirmelo - anche se in realtà è facile. Chiedendo di qua e di là sono riuscito a prendere il 31, dopo una ventina di minuti di viaggio scendo e cambio corsa. Nell’attesa mi sono seduto alla fermata di fianco a un signore, è stato lì che ho capito di trovarmi in un tempo diverso.
“Il vento è cambiato” dice, tenendo i suoi baffi rivolti alla strada.
“Ah sì?” rispondo io.
“Il maestrale quando arriva rimane almeno 2-3 giorni, ma sta cambiando.”
“Ah… e che tempo farà secondo lei?” chiedo per parlare un po’. Ma il signore non risponde, sembra ignorarmi. Lo guardo mentre lui guarda avanti e mi sembra che sia andato oltre con la mente, in altri luoghi. Penso di aver fatto una domanda stupida, alla quale non serve risposta.
Dopo qualche minuto però, il signore mi chiede:
“Vieni da Roma?”
“No, da Verona”, gli dico, “Vengo per un torneo di frisbee”
“Fresbi?” mi chiede stranito.
“Sì ha presente quel disco di plastica… c’è un torneo al Poetto domani e domenica!”
“Aaaaah” mi fa.
“È per quello che le ho chiesto che tempo fa domani!” gli dico. Così, chiudendo il cerchio, ci siamo messi a ridere entrambi.
Il signore non aveva dimenticato la mia domanda, non le aveva dato una risposta, ma si era preso del tempo. E il tempo per la Sardegna è diverso per ognuno. Se non lo capisci da solo te lo fa capire lei. Con un finestrino sfondato, i prezzi gonfiati, gli orari strani delle località di mare ad aprile, con le indicazioni stradali discontinue e i caratteri delle persone così all’opposto; gli orizzonti frastagliati come cocci rotti o piatti come tavole; con i singhiozzi di “civilizzazione” edilizia nel mantello vegetale che copre ogni paesaggio, come se la terra non potesse essere vista.
Ma la Sardegna, se la accetti, se sei disposto a guardarti un po’ dentro, ti lascia entrare alla fine. Nell'ospitalità delle persone e dei miei amici frisbisti, che ha qualcosa di molto più che proverbiale; sui fondali maculati del mare sono il naturale proseguimento della selvaticità terrestre; negli ampi spazi che diventano panorami interiori, specchi dei nostri orizzonti, a volte frastagliati e difficili da leggere, altre lisci e limpidi come la fine del mare nel cielo.
Le persone nascono nella ricchezza e nelle contraddizioni di questa coesistenza di opposti.