I nidi di Cerea

giovedì 14 dicembre 2017

Hai sempre l'impressione che se potessi usare quei pennacchi di mais del campo come un bruschino, saresti sollevato nel grattarti la schiena, e posandolo sul tavolo vedresti come quel campo, con i denti dai tagli obliqui, sparsi nell'erbetta di un verde dolce, abbia un che di marino e profondo.
In Vigasio hanno appiccicato una striscia di catrame che transito passando sotto alle luminarie di Natale. A me sembrano pesanti collier, pronti ad essere elettrificati. E sotto di essi lo spiazzo del cimitero si eleva, nei gradini che portano all'ingresso una signora scossa dai tremiti, si stringe nella stoffa del suo cappotto.
Mi metto in fila tra gli altri e guardo tossire le marmitte, sembrano sbuffi di vecchietti che illanguidiscono in anse sempre più stiracchiate, a perdersi in su, e ti chiedi se quelle nuvolette non vadano a unirsi agli scampoli di nubi rimasti, lasciati a penzolare dopo lo spettacolo del temporale degli ultimi giorni.
Nel bianco fondale nebbioso il braccio meccanico di un escavatore risalta come un uncino d'inchiostro; mastica boli di terra trasudanti, ma fa fatica, non è tempo di frenesie. Nemmeno le mie ruote sono frenetiche, collezionano nuovi chilometri con la passione di un ciclista amatore in un giorno feriale e ritrovano le amiche curve di ogni giovedì. Mi sento sempre meno intirizzito, il motore entra via via in temperatura, tra i suoi schiocchi e i suoi risucchi. L'airone bianco con il becco dell'arancione di un tramonto di motore non sa nulla, stringe nelle zampe il fango congestionato, muove in direzione d'Isola della Scala, accompagnandomi con lo sguardo fino alla torre scaligera e sicuramente lasciandosi alle spalle i ciuffi di tabacco abbandonati. Pare che l'airone sappia che la responsabilità del riposo delle zolle è solo del ghiaccio.
Sorpasso la torre, muta e discreta come io cerco di essere, torcendo il collo per guardarne i canali e i mattoni mentre rallento il più possibile. Potrebbero rallentare tutti di fianco ai diroccamenti antichi, ai casali rotti, agli aironi. Un millennio fa, quando la stavano costruendo, i viaggiatori a piedi e a cavallo forse sentivano la stessa sensazione. E se qui adesso ci fossero altre persone, impegnate a percorrere lo stesso mio tragitto ma in epoche diverse, come si farebbe con chi si trovasse seduto in treno sul posto di fronte, gli parlerei, per sapere se gli è mai capitato di pensare a quando si lascia il proprio paese per spostarsi a quello vicino, se nel loro spostamento, fatto in modi e tempi diversi, anche a loro sembra di approdare in luoghi dove si "appartiene meno", dove si è già lontani, di muoversi oltre il confine familiare, verso zone non abituali.
Il viaggio è così vicino alla narrazione, entrambi sono caratterizzati dalla linearità. Da un momento all'altro si avvicina il cartello di Campagne ed è tutto quello che trovo attorno, come se fosse una descrizione. La pianura si stempera ancora di più nelle larghezze delle coltivazioni. Quanto mi piacerebbe improvvisare un trekking avendo come soli riferimenti i campanili che compaiono dove finisce la terra e inizia il cielo. Vedrei le cascine isolate circondate di sterpi alternate alle poche case dei concentramenti abitati, che invece hanno giardini curati e recinti. Appartengono. Mi sento più vicino ai ruderi spelacchiati in questa discesa lavorativa, senza recinti attorno a me ma senza mettere in discussione una partenza.
Ampie sono le viste qui. Prima di arrivare scavalco con l'immaginazione molti ettari e, al di fuori della strada ma nell'intimità degli alberi, io che non so suonare alcuno strumento, ignoro che note formino gli uccelli nei pentagrammi sui tralicci. Mi allontano facendo piano, guardando di nascosto, perché qui, nell'inverno, i nidi lasciati scoperti sui rami sono i semi della ribellione. Niente come quei piccoli ricoveri di varie forme e dimensioni conserva la memoria di un eterno ritorno.