Lo stile di Pippo

giovedì 15 marzo 2018

Pippo sembra essere la trasfigurazione della mindfulness. Perché non è "tonto", ma nemmeno completamente definibile. Eppure le sue storie sono tutte accomunate dall'ineffabile coerenza del suo modo di affrontare la vita. Taluni potrebbero confondere questo modo con la sbadatezza, ma anche qui non sarebbe corretto.
Intendiamo con "mindfulness" uno stato di consapevolezza particolarmente legato all'esperienza del personaggio nelle vicende che vive, senza ulteriori riferimenti alla teoria psicologica. Anche perché è per primo lo stesso Pippo a non avere una teoria ma a muoversi secondo il sacro principio del sentire, veramente poco condizionato dai giudizi esterni/interni e dai pensieri che questi gli potrebbero suscitare.
Prendiamo la storia "Topolino e il ritorno del Principe delle Nebbie": quando nel pieno dello scontro Topolino ricorda a Pippo che le forze oscure contro cui stanno combattendo non sono altro che illusioni, ecco che lui sembra cogliere quella rivelazione trasformandola in una logica deduzione scientifica, ossia, nel modo in cui tutti noi vorremmo poter trattare le nostre paure e preoccupazioni di ogni giorno, trovando la soluzione e la forza per sconfiggere i nemici.
C'è in Pippo un'assoluta ed equilibrata centratura, che lo porta ad essere tanto gentile e disponibile quanto onesto e leale verso se stesso. Caratteristica che risalta ancora di più in una saga, quella della terra di Argaar, che vede in realtà sempre Topolino come riferimento nei titoli dei vari capitoli.
Dopo una lettura così, non si può far altro che notare che il vero potere, invece, in questa storia, come in tutte quelle del ciclo, è detenuto da Pippo, non da Topolino. Quest'ultimo invece, già famoso per rappresentare la figura del plurieroe intelligente e osservatore, finisce per accompagnare e dirigere il compagno. Potrebbe allora sembrare un riscatto, una vittoria silenziosa e disinteressata, da parte dell'uno verso l'altro, ma in questo modo scadremmo in un dualismo critico di bassa lega, orientato dal giudizio.
Pippo e Topolino sono amici, e va bene così. Nel pieno stile di Pippo.

Merli

martedì 13 marzo 2018

Chiusa la portiera mi sono girato verso la pianura, un mosaico che risplendeva al sole di marzo, tutto intarsiato di caselle marroni, verdi, grigie, luccicanti, scomposte, il mosaico che Giulio vede ogni giorno dalle ampie finestre di casa sua.
Il campanello si trova oltre il basso recinto di legno, metto i piedi nel giardino.
Tump!
Un sonoro tonfo mi fa guardare ai finestroni del primo piano che mi sovrastano, il corpicino stordito di un merlo scompare tra le fioriere e una nube di leggere, piccole piume nere plana sopra le corone delle calendule.
Tutto tace di nuovo. Rimasto a guardare il vetro, scorgo qualcosa muoversi come sotto la superficie di acque calme.
«Sì è schiantato un merlo sul vetro!» dico al padre di Giulio, affacciato a cercare tra le fioriere.
«Eh ma si riprendono di solito. Dov'è?»
«Lì nella fioriera, a sinistra. Ma perché, succede spesso?»
«Sbattono contro il vetro ma poi di solito si riprendono.»
«Ma perché? Vedono il riflesso?»
«Loro ci vedono il cielo azzurro e sbattono. Dov'è che è?».
«Lì nella fioriera. No quella a sinistra, dietro il fiore.»
«Beh si riprenderà. Quali nuove?»
«Devo riportare le schede SD di Giulio. Ma il campanello è quello?»
«Sì è quello lì, ma chi viene a casa mia apre e viene su.»
Sgancio il chiavistello e apro. Faccio gli scalini a due a due e mi fermo quando un cane, un trotterellante esemplare di cavalier king, mi corre incontro.
«Questa è la Gina, e come vedi è ferocissima» mi dice il padre di Giulio. «Da quando abbiamo il cancelletto per lei non suona più nessuno, c'è una tranquillità!». Gina mi fiuta la mano cercando di arrampicarsi sui jeans, vitale come la reincarnazione di una giornata di primavera.
«Mi ha detto Giulio che avete avviato un bel lavoro.»
«Sì» rispondo senza troppa voglia di spiegare, ma lo so, dopo lo sforzo mentale di tornare alla sera precedente posso anche approfondire. «C'erano una dozzina di ragazzi, tutti molto interessati.»
«Quando è stata l'ultima volta che si è sentita una cosa così? Ne facevo parte anch'io, forse vent'anni fa.»
«L'assessore mi parlava dell'inizio degli anni novanta.»
«Saranno anche venticinque anni... Gli ho detto Giulio, mi hai fatto fare un salto a quand'ero giovane!»
«Ah aspetta che chiudo» dico fiondandomi all'inseguimento della Gina, che ballonzolava giù per i gradini bianchi.
«Sente la cagnolina di Pietro, che abita lì. Lo sai dove abita Pietro no?» mi chiede il padre di Giulio raggiungendomi al cancelletto.
«No, dove?»
«Lì sopra.» indica qualche casa più su mentre la Gina gratta il legno che la separa dalla strada.
«Una volta partecipavano in tanti...»
«Una volta forse era anche più sentito l'impegno politico.»
«Sì. Forse sì.»
«Anche se ieri erano tutti molto attenti e sembravano... in attesa. Come in procinto di sfogare una lunga attesa.»
«Mi ha detto che avrebbe fatto qualche foto, ne ha fatte trecentocinquanta.»
«Sì è stato bravo, gliel'ho chiesto io di fare un'ampia copertura.» la Gina ci guarda seduta mentre passo le schede SD dalla mia mano a quella del padre di Giulio.
«Va bene, grazie mille!» appoggio una mano al cancellino e lo salto via e odo una risata dietro di me.
«Sì anch'io faccio così, è più facile!».

Orme

domenica 4 marzo 2018

Trovare la neve a San Rocchetto, per me, voleva dire riscoprire i sentieri delle colline quinzanesi. Dai paesi del fondo valle salgono strade carrabili che diramano tra gli uliveti alle spalle dell'eremo, assottigliandosi tra i campi in viottoli sempre più stretti e convogliando in ulteriori stradelle carrabili d'altura. Il depositato alto quattro dita aveva reso queste vie dei radi corridoi dai margini indistinti; il bianco deformava tutti i punti di riferimento.
Salivo all'eremo in un ticchettio di granelli ghiacciati mentre il camion spargisale otturava la stretta via, sfilando a un soffio dalla manica della mia giacca. L'aria bianca e densa chiudeva la vista non più in là di mezzo chilometro, confondendo tutto in una coltre nebulosa densa e statica, che mangiava a poco a poco i rettangoli bianchi del centro abitato. Il paese si abbassava passo dopo passo, le piste lasciate da chi mi ha preceduto diminuivano al procedere dei civici lungo la stradina.
Attraversavo gli uliveti con il solo scopo di aggiungere metri al mio andare, come se inconsciamente sapessi di averne bisogno, di utilizzare quel tempo e quel luogo per prendermi cura di me. La direzione non m'importava ma volevo poter ritrovare la casetta, un podere piccolo e grazioso come quelli delle campagne sperdute di Scozia e Irlanda, creato da un signore che avevo conosciuto e che mi aveva offerto una vista dalla sua torretta.
Presi a sinistra per l'imbocco calpestato del più piccolo sentiero che si può trovare in questa zona, scavato dalle suole tra sassi instabili, infilato come una piega tra due pance della collina. I veri abitanti di qui, gli ulivi, assistevano pensierosi al mio mesto passaggio, con i rami carichi di neve in perenne tensione. Al bivio per la Piana di Ronchi il verde chiaro di un bambù esprimeva il proprio dissenso, contrario agli scuri marroni dei covoni di sottili rami tagliati, alla pellicola antica di un luogo che aveva dimenticato i colori. Oltre il boschetto le voci di un uomo e di un bambino erano gli unici suoni d'inquietudine nel rosicchiante piovigginare di cristalli.
La poca familiarità nel riconoscere dove mi trovavo mi spinse a continuare, guidato unicamente da una fila di orme umane, più chiare delle altre, che mi accompagnavano dall'inizio del sentiero. Si trattava di una suola con una forma nel tallone, lunga e profonda. Provenivano dalla direzione nella quale stavo andando. All'improvviso non mi sentivo più solo, un Camminatore era con me. I cancelli delle abitazioni silenziose, gli umili muretti a secco mezzo nascosti da schiumate nevose. Mi affidai totalmente ai suoi passi per cercare la svolta del ritorno al Santuario.
In un momento però, nei pressi di Piana, sullo stesso tratto di strada vidi sia le orme girate nella direzione da cui ero venuto sia quelle girate nella direzione in cui stavo andando. Doveva essere un tratto che il Camminatore aveva percorso prima in un senso e poi nell'altro, il che voleva dire che quasi sicuramente avevo mancato il punto in cui la pista svoltava nella direzione che stavo cercando. Rimettendomi a decifrare le impronte sull'ultimo tratto vidi dividersi le vie, i passi che tornavano piegavano verso una leggera salita, una strada chiusa al traffico motorizzato. Raggiunto il bivio successivo riconobbi il sentiero basso del colle, dal quale si aggira l'altura e si raggiunge il paese. Risalita invece la strada vicinale fino alla congiunzione con il sentiero per l'Eremo di San Rocchetto, percorsi quella direzione fino al campo incolto, il mio punto di riferimento in quota, per il quale tagliai lasciando il sentiero. La neve aveva ripreso a cadere fitta e spessa come grossi fiocchi di cotone. Dal manto sul terreno spuntava un esile filo d'erba che si faceva credere un uccellino sepolto. Senza volerlo eccola lì, la casa che cercavo, il posto segreto che ho cucito dentro di me. Non mi ricordavo precisamente la sua ubicazione e sapevo che ritrovando l'anello per l'eremo avrei trovato anche quel luogo con il suo giardino. Ero arrivato e mi bastava quello per poter ripartire.
Qualcun altro aveva percorso il mio stesso sentiero di collegamento, due persone, frusciando sotto le dita di lunghe foglie sottili e aggirando i muretti divisori. I passi di costoro, e ben presto anche i miei, tornavano a scomparire un batuffolo alla volta, una carezza posata subito dopo l'altra, delicatamente ma con determinata intenzione, come se avessi svelato un segreto e adesso, per celarlo e riappropriarsene, la terra tornasse a coprirsi. Capivo di dovermene andare.
Sorpassata la casetta dismessa sulla cresta del colle, seppi di dover fare attenzione al tratto di sentiero in pietra esposta, scivolosa e inattendibile a causa del vello innevato. Ritrovato il cancello, ostinatamente aperto, dell'Eremo, ripresi la via della discesa. Un ramo lasciò cadere un grumo di neve come una mano inerte.
Ritrovai le piste dei residenti, gli usci, il sale sull'asfalto, ma non era come andarsene da un luogo per poi raggiungerne un altro, che so, uscire da un centro commerciale o da un qualche cosa di popolato, di costruito. Erano i corpi nudi degli alberi, la superficie della terra, quelli rimasti là sopra a imbiancarsi e, qualsiasi cosa potesse accadere, a rimanere in mutamento.
Lasciai il posto al silenzio.