L'importanza di essere un falegname

sabato 4 ottobre 2014

Lo ascoltavo parlare con quelle sue frasi non lineari, con quelle aperture sulle idee, sui disegni che aveva in testa ma non saprebbe riprodurre; chi avevo davanti, un uomo o uno spirito? Era quello che nel parlare spiccio definireste "una mente", ma forse solo dopo averlo conosciuto. E certe conoscenze si fanno solo in determinati casi, come quando non avresti mai detto né di averne il tempo né di averne voglia. Ma sono casi che ti costringono a mettere il mondo a parte di ciò che vi siete detti, perché sentite il bisogno di tagliare il ricordo delle sensazioni che quel dialogo ha suscitato in voi, come una gemma grezza ha bisogno di essere lavorata per splendere anche agli occhi di non si è sporcato per estrarla.
Si era stufato di andare a scuola, non è mai stata la sua, ha deciso di lavorare; è passione quando passi le tue giornate lavorando il legno e per diletto lavori il legno nel fine settimana. A lui piace usare le proprie mani per costruire, tutto di lui me lo dice, il suo passare entusiasta da un lavoro che ha fatto a un'altra idea, il modo di raccontare imprese passate sapendo che ogni cosa sotto quel tetto polveroso è dove deve essere, compreso il tempo.
Ma quello che più mi ha colpito, la cosa che mi ha infiammato, è stato farmi attraversare dai suoi ricordi. Ci tengo a precisare che non stiamo parlando di un anziano, non si tratta di un'intervista sulla memoria. Non è nemmeno il ricordo in sé che ha acceso il mio interesse: è stato quando mi ha spiegato che se un ragazzino si appassiona a qualcosa come i carrettini a sfere, li costruisce, vede i suoi amici fare altrettanto, si lancia in una competizione e si diverte, molto probabilmente poi andrà a pensare dei modi per migliorare, modificherà qualcosa nell'assetto, inventerà nuove caratteristiche. "Sì! Anche a me piace quello, è come se facessero... ricerca!" e anche lui sembrava aver trovato una forma diversa, ma chiara, di esprimere quello che aveva dentro "Bravo! Proprio quello!", mi ha risposto.
C'è qualcosa nel fare, in quel fare inteso come diretta applicazione di un pensiero, che sa restituire all'uomo significati tanto meno complessi quanto più vicini al senso di ciò che si fa. L'insegnamento non mi è mai sembrato tanto distante dall'argomento che avrei voluto apprendere.

Una panchina

mercoledì 27 agosto 2014

Dedico questo post alla Panchina, lo faccio riportando un editoriale scritto da Valentina, la direttrice del noto settimanale Topolino, sul numero uscito oggi, mercoledì 27 agosto 2014.
Perché? Perché è l'esempio di cosa vuol dire risignificare. Questo blog persegue uno scopo, che forse talvolta sembra fumoso, ossia quello di proporre nuovi significati alle parole, ai concetti o agli eventi - è la diretta emanazione dello spirito che sta dietro a un'idea come quella dell'Art Pollution Fest. In un vecchio post ne avevamo scritto, di questo nome e della scelta di inventare e preferire il significato diverso di inquinamento: preferiamo credere che non solo la merda, non solo il monossido né gli scarti abbiano una potenza oscura e silenziosa, determinante, che serpeggino sulle strade e nelle discariche nello stesso modo in cui fanno tra le nostre coscienze - se potessimo inquinarci di senso!
Ogni cosa appartenente alla nostra realtà, alla realtà ordinaria, tutti quegli argomenti che ci passano davanti agli occhi e non vengono registrati, che appartengono all'abitudine e alla scontatezza, sono gli argomenti di questo blog, sono ciò a cui affidiamo i nostri significati.

Cari amici di Topolino, eccomi qui, seduta idealmente su una panchina. Sono bella comoda e i pensieri viaggiano. Sarà perché sul cellulare ho ricevuto da poco una foto in tema da parte di Davide, il nostro caporedattore a fumetti, in diretta da un'isoletta greca... E poi il bel servizio di Elena a pag. 72 mi ha fatto pensare che tutti, nella vita, hanno avuto o avranno una panchina su cui sedersi per aspettare qualcuno o qualcosa. La panchina è un luogo importante e per me è stata per anni il punto di riferimento intorno a cui si costruivano e si incontravano compagnie di amici... Al mare, in montagna, in città. Durante le partite di pallavolo quando stavo "in panchina"... Certo, questo fondamentale pezzo di arredamento urbano può rimandare anche a pensieri malinconici: da piccina ascoltando "Poster" di Claudio Baglioni, che cominciava così: "Seduto con le mani in mano sopra una panchina fredda del metrò...", mi prendeva un magone che non sapevo nemmeno spiegare. Ma in generale il ricordo delle mie panchine è di grande gioia. In particolare il ricordo più vivo è quello della piazzetta del paese dove ho vissuto la mia adolescenza. Senza fissare alcun appuntamento, sapevo che se mi fossi messa lì, prima o poi sarebbe sempre arrivato qualche amico. Il momento più bello era quello del ritorno dalle vacanze di fine agosto, quando è facile cadere vittime dell'incubo-solitudine: sapere che la panchina era là ad aspettarmi e che certamente, a sorpresa, proprio lì mi avrebbe raggiunto qualcuno, mi dava sicurezza. E scacciava lontano il pensiero di un'estate che stava finendo...

Aironi

venerdì 30 maggio 2014

Ieri ho visto un airone volare su Povegliano, mentre guidavo, per poco sono stato a guardarlo sopra di me, sopra tutto, appoggiare le ali sull'aria e annerirsi contro il tramonto. Ho continuato a guidare e l'ho dimenticato fino a oggi.
Oggi non è stato un giorno particolarmente diverso dagli altri, diciamo pure che è stato esattamente uguale proprio perché è successo qualcosa di nuovo. Ho visto altri aironi, ai margini; seduti o vaganti come uccelli feriti, inabili al volo; fatti della credenza di non sapersi librare in aria, hanno imparato dolorosamente a camminare veloci, muoversi innaturalmente su zampe incerte, usare i loro becchi per colpire e difendersi.
Degli aironi loro hanno i colori, tatuaggi neri come piume, e l'eleganza della solitudine; la compostezza nella meditazione e la capacità di non dar a vedere le incrinature; hanno le cicatrici e le mandibole sbeccate.
Qualcuno ha convinto i ragazzi che lassù non c'è niente di buono, che si rischia, che è pericoloso.
Eppure non basta che anche loro vedano un airone. Ora c'è bisogno che tutti quelli che sono stati a guardare finora, gridino loro in faccia cos'è una ala, cos'è un becco, cos'è un airone, cos'è il cielo... e vi si lancino.

Un post per San Valentino

venerdì 14 febbraio 2014

Oggi ho avuto la fortuna di conoscere un po' meglio Rita Levi Montalcini, attraverso il racconto e le emozioni di Giuseppina Tripodi, sua stretta collaboratrice, in un incontro intitolato "Abbi il coraggio di conoscere", organizzato da Incontri Culturali Liceo E. Medi, un gruppo di studentesse che hanno voluto dare mano alle loro idee.
Subito non l'avrei pensato ma Rita Levi Montalcini c'entra un sacco con San Valentino; forse per la sua trascinante passione per tutte le cose della vita, per la sua propensione al domani, per quella luce bianca e ardente che le scappa dal fondo degli occhi in ogni foto e in ogni filmato ogni qual volta risponda a una domanda senza nemmeno dare l'idea di pensare a una risposta. La connessione tra ciò che la prestigiosa scienziata ha studiato nella sua vita, ciò in cui credeva e ciò che aveva deciso di fare nella precisa intenzione di agire sulla realtà che la circondava era così stretta da zittire.
Uno studioso di cui non ricordo il nome, ma che la dottoressa Tripodi ha nominato, scoprì che quando uno dei due emisferi del cervello subisce un danno molto grave, come ad esempio un ictus, e quindi smette di funzionare normalmente, l'altro emisfero sopperisce cercando di svolgere le funzioni interrotte. Come una donna accanto a un uomo, con il suo sentire. Come un uomo accanto a una donna, con il suo essere.
Un lampo.
Una sensazione così stringente da suscitare commozione. Quasi la stessa che anche la dottoressa, per un attimo, ha svelato.
Ora ok, non so se c'entri effettivamente con San Valentino, non so se c'entri davvero con gli innamorati, diciamo che so sempre meno cose più vado avanti e questo mi inquieta almeno quanto mi esalta.

Concluderei con le parole che ha scritto lei, lette da Sara in conclusione all'incontro, che hanno il profumo dell'amore per l'umanità.

Ammettendo che tutti gli uomini abbiano incrinature e cioè difetti, perché questi sono inscindibili dalla condizione umana, in che cosa si differenzia il grand'uomo dall'uomo comune? Non certamente nella supremazia intellettuale. Uomini dotati di eccezionale intelligenza, che hanno apportato uno straordinario contributo scientifico, sono grandi uomini secondo la definizione corrente e sono venerati come tali, ma molti di loro sono decisamente inferiori all'uomo comune. Si ritiene che eccellere in qualsiasi attività possa dare un senso di grande sicurezza "e probabilmente una grande gioia", invece non serve che a stimolare la vanità e fornire un paraocchi. La sicurezza che deriva è uno schermo all'intima debolezza e la polarizzazione a coltivare quella particolare attitudine è a danno, e non a vantaggio, della personalità. Ritornando alla definizione e all'analisi degli attributi del grand'uomo, né le eccezionali qualità intellettive, né la forza e la sicurezza sono le doti che lo differenziano. Sono da sottovalutare le qualità che portano al successo e alla supremazia, mentre sono da elogiare gli individui dotati di una profonda e acuta sensibilità, quelli che sanno dimenticarsi completamente nella contemplazione dell'universo e/o dedizione agli altri e che sono non "senza incrinature", ma fanno errori e sono vulnerabili. Non è l'assenza di difetti che conta, ma la passione, la generosità, la comprensione e simpatia del prossimo, e l'accettazione di noi stessi con i nostri errori, le nostre debolezze, le nostre tare e virtù, così simili a quelle dei nostri ascendenti e discendenti. Spetta a ogni individuo il compito di costruire la propria scala di valori e cercare di attenersi a quella, non al fine di ottenere un compenso in terra o in cielo, ma con l'obiettivo di godere ora per ora, giorno per giorno, della straordinaria esperienza di vivere.

Rita Levi Montalcini, "Abbi il coraggio di conoscere"

Il grissinaio

mercoledì 12 febbraio 2014

Orazio faceva il grissinaio. Amava i grissini e aveva dedicato la sua intera vita a questo alimento arrivando alla produzione su scala industriale. Era un tipo decisamente simpatico, amante della routine, senza grandi ambizioni ma con chiaro in mente ciò che gli piaceva. Ogni mattina si alzava alle sei e undici minuti - sosteneva non fosse affatto lo stesso che svegliarsi alle sei e dieci, anzi quel minuto rubato cullava il pensiero di potersi riposare almeno un po' di più; faceva colazione con un croissant ripieno al cioccolato e un cappuccino comprati e consumati al bar in fondo alla via, tornava a casa per dedicarsi alle cure mattutine e quindi, verso le sette e quarantacinque (mai ad un'ora precisa, perché doveva essere soddisfatto delle cure mattutine), saliva in auto e raggiungeva il paese vicino dove aveva sede la sua fabbrica. "Buongiorno signo' Orazio!", "Buongiorno a voi!" rispondeva cordiale ad ogni saluto. Amava inoltre camminare tra i macchinari della linea di produzione, si occupava di mantenere le specifiche igieniche e provava un sincero piacere nel conversare con i lavoratori. Come ogni mattina insie-
"Posso portare via?", in un istante il cameriere mi porta via l'involucro di grissini vuoto.
Non ho modo di reagire.

Dal diario di un costruttore di igloo

lunedì 6 gennaio 2014

"Non sappiamo quanto ci metteremo ma dobbiamo farcela, abbiamo al massimo tre ore, tre ore e mezza di luce e la temperatura scende velocemente. Ho prevveduto a disegnare su una superficie abbastanza regolare della collina dove ci troviamo la circonferenza da seguire per piazzare i primi mattoni di neve indurita; una nevicata di alcuni giorni addietro è ormai abbastanza compatta e posso tagliare la neve con una cazzuola di fortuna che ho recuperato dalla stiva dell'aereo. David decide di occuparsi del posizionamento dei mattoni, Alexander li trasporta facendo la spola con i ramponi d'acciaio, in bilico sulla cresta scivolosa di ghiaccio cristallino. Inizio a trivellare la superficie di ghiaccio togliendo la neve in eccesso, questo mi dà modo di poter effettuare tagli abbastanza profondi da sagomare dei blocchi di dimensioni adeguate. Dobbiamo poter entrare almeno in tre.
Uno degli scatti ritrovati nell'apparecchio del cotruttore di igloo.
In mezz'ora siamo riusciti a realizzare le prime due file di mattoni ma la fine dell'igloo - questo è il modello di rifugio che abbiamo adottato - sembra ancora lontana e io inizio a sentire un indolenzimento alle ginocchia, che tengo affondate nella neve per non scivolare sotto i massi erosi dal vento che ci circondano. Abbiamo scelto oculatamente il luogo dove posizionarci: in mezzo a delle formazioni rocciose che possano proteggerci dalle raffiche più forti.
Mentre lavoriamo giungono dei superstiti, un signore sembra avanzare in avanscoperta e riconosciutici come amici decide di farsi raggiungere dalla moglie e dai figli. "Guardate un igloo!" dice. Gli rispondo nell'unico modo in cui avrei potuto rispondere in quel momento: "Se vuole darci una mano è ben accetto!", ma non sembra dell'idea, infatti ci congeda augurandoci buon lavoro e prosegue la sua marcia.
La neve in molti punti è ghiacciata molto e tagliarla diventa davvero faticoso, così cerco altre zone dove poter lavorare dei blocchi che possano essere resistenti ma abbastanza solidi. Questo tipo di operazione richiede rapida capacità decisionale e quell'abilità che si confà in particolare agli scultori, capaci di vedere in ogni singolo blocco le forme in cui si sarebbe rivelato, e così in pochi attimi occorre modellare il mattone in funzione della posizione che occuperà sulla struttura. Inoltre sento i miei guanti strappati inumidirsi sempre più; devo continuare a mantenermi occupato per non soffrire il raffreddamento progressivo delle dita, ma sembro riuscirci.
David viene sempre più circondato dal muro di blocchi e lavora pressando la neve che Alexander fa cadere in ognuna delle fessure formatesi. Lentamente cresce la tipica forma sferoide degli igloo, anche se qua è là i mattoni non sono perfetti, ma dobbiamo muoverci, la luce già debole a causa delle nubi sta svanendo in un crepuscolo color borgogna.
Altri superstiti. Due donne con quattro bambini si avvicinano, i piccoli sembrano incantati nel vedere quanto stiamo realizzando e ascoltano come rapiti le spiegazioni di quella che deve essere stata loro madre: "Guardate, ognuno ha un compito, lui fa i mattoni, lui li posiziona...".
Mi sento come si sente una formica laboriosa nelle scene di Super Quark.
Ma ben presto se ne vanno, cercando forse qualcosa da mangiare. Le ginocchia mi dolgono, David ha i vestiti bagnati e anche i miei guanti ormai non conservano nessun lembo asciutto. Alexander riposa seduto in disparte rimirando le vette circostanti. Sicuramente sta rammentando i giorni più caldi, in cui gli agricoli passano i loro polpastrelli sporchi di polvere tra le spighe di grano.
I tre costruttori dell'igloo di San Giorgio.

Abbiamo quasi terminato, mancano pochi blocchi per chiudere la sommità. Due persone si avvicinano, due uomini, sulla quarantina, sembrano curiosi, non saprei dire da dove vengano. "Beh adesso voglio proprio vedere quando lo finite", dice uno di loro. Dopo pochi minuti però se n'è andato salutandoci in silenzio, come fanno i viandanti di queste parti incrociandosi sui sentieri.
Ecco, sto tagliando il coperchio che chiuderà la volta. Questo sarà un pezzo removibile, che ci consentirà di poter gestire un fuoco che accenderemo all'interno. Mi tolgo i guanti e le mie dita stanno assumendo un colorito blustro. David è bloccato all'interno dell'igloo, aspetta che tagliamo la porta dall'esterno. Alexander invece è qui con me e ci apprestiamo a completare la struttura. Tutto avviene senza intoppi, le forze sono ben distribuite e l'apertura consente a David di uscire. Ben presto entriamo tutti e tre portiamo all'interno le nostre provviste. Sono quasi le cinque ed è già buio.
Siamo al sicuro."



Un costruttore di igloo

San Giorgio (VR)
6 gennaio 2014