Aquilus

domenica 4 febbraio 2018

Ritornavo al Corno come si torna all’altare, credendo che da lassù potessi osservare risposte altrimenti negate. È un’altra montagna d’inverno. Ho preso la strada che non avevo mai fatto, una vera e propria strada fino agli ultimi cento metri di dislivello, senza domandarmi se fosse quella giusta, superando i due imbocchi del sentiero E7 che avevo fatto la prima volta con mio padre e, come in quell’occasione, pur essendo da solo, seguivo qualcuno. Mi accompagnava l’entità della montagna, in passi corti e scivolosi, puntando con gli scarponi a far presa sui tratti di asfalto o terra, macchie ruvide e sicure, mangiucchiati nella neve.
Il vento era gelido e penetrava dalla cerniera rotta della giacca. Amavo guardare il corale tintinnio delle legioni di foglie, luminose di pomeriggio, assurdamente dedite ai loro bracci di rami asciutti invernali. Cedevano il passo, all’aumentare di quota, ai sempreverdi aghiformi, che nelle loro ombre nascondevano il ghiaccio ai nostri passi, rendendo ogni volontà di avanzamento un’attenta riflessione, un proposito non privo di rischio, come a ricordarci il valore che dobbiamo riconoscere nel salire, su questo monte come su ogni altra sponda di terra.
Verso la metà del tragitto, le rocce sbucavano dalla vegetazione come estrusioni rigonfie e provocavano una curva a destra e una a sinistra, dietro le quali comparivano i fusti spezzati dei pini, sul ripido declivio al di sotto del sentiero, sdraiati a fianco delle proprie radici. Di uno di loro, i rostri affilati di fibra di legno odoravano di resina ed essenza. Nell’aria limpida gli odori apparivano chiari come colori.
Avevo lasciato indietro gli ultimi camminatori incontrati sul percorso poco prima di uscire dall’area boschiva. I supporti di una sbarra scomparsa indicavano l’inizio della seconda parte di salita, quella che si snoda tra le bolle flessuose che preludono alla cima, sedi dei pascoli estivi. Si scorrono le circonferenze imbiancate, fino al versante in ombra, dove intervengono altri sporadici saluti. Da questa parte l’accumulo di neve era più massiccio e resistente, più facile da affrontare infossando i piedi in solchi resistenti. Il sole si frantumava negli infiniti cristalli luminosi di dura neve, ghiacciata nel succedersi dei giorni e delle notti. Ogni lingua, ogni coperta candida e sfaccettata, si ritraeva un po’, scoperchiando erbe ingiallite, muschi barbosi, rocce umide, dando il senso dell’infezione che si ritrae, restituendo la pelle della montagna dal guanto del gelo.
L’abitato sul Corno, nell'alternarsi stagionale, è composto da alcune stalle sparpagliate e qualche malga. La mulattiera che conduceva a una piccola chiesetta era recintata da due righe di filo spinato a ovest e da una sequenza di paletti a est, che sporgeva da terra di una trentina di centimetri, ognuno collocato a circa mezzo metro dall’altro. Oltre, i camminatori colorati di giacche popolavano i tavoli della malga, scambiandosi tra l’interno e l’esterno.
Mancava ora da superare l’avvallamento che, visto dai paesi di pianura, accentua la forma di corno della cima, la quale talvolta, nelle giornate cariche di smog o di foschie invernali, si sfuma in contorni imprecisi, restituendo tutto il significato del suo nome: Aquilio deriva dal latino aquilus, fosco. Un forte vento mi congelava le orecchie e si faceva tanto più forte quanto più mi esponevo salendo, costringendomi a usare il cappuccio.
Ricordavo le pietre incastonate nella terra granulosa del giorno in cui sono salito con i miei amici, parlando di noi e di Dio ma non delle nostre paure. Le stesse pietre di oggi, quindici anni prima ci facevano da sfondo, scorrevano senza entrare nei nostri pensieri. Sono quelle pietre che ho voluto raggiungere, sulle quali mi sono seduto per mangiare un pasto semplice; che per un pomeriggio ho considerato come la casa di un amico, dove introdurmi sapendo che non mi avrebbe mandato via.