Rivoluzione!

giovedì 14 aprile 2011



Sembra una parola da libri di storia o da servizio di telegiornale. Ci fa immaginare lotte e contrasti, insurrezioni civili e barricate nelle strade, o cortei e occupazioni. In sostanza atti che, se non volutamente violenti, sono atti di riappropriazione, di rivendicazione attraverso un contrapporsi netto, in cui non vale più la pena tenere in considerazione posizioni intermedie. E’ sempre stato questo il significato e l’ideale rappresentazione di una rivoluzione. E sorge sempre l’intima domanda: io devo fare qualcosa?
Più volte mi chiedo, di fronte ai problemi che mi si presentano, perché mi si presentano e se un determinato problema è sorto a causa mia oppure no. Credo che sia una domanda legittima ma non una domanda alla quale dedicare troppo tempo, perché poi bisogna agire. Sia io o meno la causa del problema, se mi ci imbatto ho due scelte: lasciar perdere o provare a trovare una soluzione. Ognuna delle due scelte ha lati positivi e negativi, ma la prima li ha verso il soggetto singolo, mentre la seconda li ha verso una pluralità. Questo perché ogni azione implica una responsabilità.
            Il cambiamento che deve avvenire oggi sta nell’azione; la rivoluzione rimane un’importante mezzo comunicativo al servizio dei cittadini ma con i tempi, ed è arrivato il tempo, deve cambiare anche l’accezione del termine: non si tratta più di battagliare ma di educare, o meglio, formare. Questa è la responsabilità individuale.
            Un esempio, la televisione. Potrei dire: da molto non guardo più la televisione perché porto avanti una crociata personale contro l’instupidimento e l’assuefazione a contenuti di bassa qualità – ma anche questa sarebbe una vittoria implicita della televisione. La negazione a priori non elimina il problema. Quando la guerra termina con l’annientamento dell’avversario non termina la violenza.
            La realtà delle azioni e delle reazioni sociali, cioè quello che facciamo nella vita di tutti i giorni, è descritto da un meccanismo molto semplice: l’imitazione. La rivoluzione odierna non consiste nel proporre una risposta più violenta delle precedenti ma nell’avere la forza di interrompere questo meccanismo.
            Essere rivoluzionari oggi non vuol dire unicamente sfidare il potere, non significa per forza cercare cose nuove (alle quali rischiamo di non essere preparati), ma condividere i nuovi significati di concetti che paiono scontati. Così cambia anche il significato di “arma”, che non diventa strumento di morte ma garanzia di futuro, se per arma intendiamo l’educazione; la ribellione cessa di essere l’ostentazione della rabbia di non essere ascoltati e diventa la ferma convinzione che la cooperazione, la fiducia e l’ascolto devono essere valori pretesi da se stessi prima che da chi è al potere.
            Questo se pretendiamo un cambiamento, so anch’io che dovrebbe essere chi governa a dare l’esempio.
            Quindi veniamo alla risposta alla domanda dell’inizio: sì, io devo fare qualcosa. La rivoluzione sta nell’essere d’esempio a chi ci seguirà, ai giovani e ai giovanissimi. Sta nel credere che le cose cambiano se insegniamo il perché delle cose e non solo come devono essere fatte. Sta nel concepire ogni situazione della vita come un insegnamento, per se stessi o per gli altri, ma riuscendo sempre a tollerare il pensiero diverso dal nostro.
            Questa risposta non presuppone la violenza, non è votata al "fanculismo" e non mi presenta la possibilità di subire la decisione di chi dice di volere il bene per me. La più grande rivoluzione che possiamo far esplodere è quella di un’educazione adeguata. Adeguata a rendere le generazioni future critiche verso se stesse e propositive (perché essere critici per poi non fare nulla non serve a un tubo), renderle fiduciose nella partecipazione e nella coscienza che ognuno ha il potere di far valere la propria parola. Si tratta, detto in formula, di educare all'educazione. Questo significa che chiunque senta dentro il bisogno di comunicare qualcosa affinché un altro essere umano possa crescerne a sua volta un altro, ha il diritto di riconoscere in se stesso il vero potere di trasformare il mondo, mondo inteso come le persone che abbiamo al nostro fianco, gli amici, i bambini, i ragazzi che ci guardano. Condizione indispensabile: vedere le cose positivamente. In modo critico, ma passibili di un viraggio in positivo.
Ora, non vorrei che passasse che per educare qualcuno occorra essere laureati, che senza pezzi di carta non si abbia il diritto di sentirsi capaci. Questo no. Certi equivoci nascono da qui: succede che chi viene riconosciuto dal sistema si sente in diritto di mancare d'umiltà, mentre chi invece non si azzarda ad uscire dal proprio guscio ha paura delle parole di chi vede come il solo autorevole. Personalmente, credo che tutto ciò che ci sia bisogno di fare sia riconoscere qualcuno a cui si vuole bene e investire su di lui ciò che di positivo abbiamo. Eppure, come ogni altra rivoluzione, qualche sacrificio c'è da farlo: per operare sul mondo occorre conoscere bene come opera il mondo, occorre sapere quali sono i mezzi che si hanno a disposizione, occorre sopportare senza sbattersene alla prima difficoltà, mandar giù grossi rospi corposi, perché la prima impressione necessita di conferme e di ricerca continua.


Oggi, è accendendo la tv, guardando la tv, questa tv, e guardandola insieme, che facciamo qualcosa di potenzialmente rivoluzionario. É solo così che possiamo condividere la nostra critica con quanti guardano abitualmente la televisione e fornire gli strumenti necessari a una percezione corretta.

Lorella Zanardo, Il corpo delle donne, Feltrinelli, Milano, 2010

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